Domenica delle Palme

PRENDETE E MAGIATE
QUESTO È IL MIO CORPO
Mt 26,20-30

Ora, venuta la sera, giaceva a mensa con i dodici. E, mentre mangiavano, disse: Amen, vi dico, uno di voi mi consegnerà. E, rattristatisi molto, cominciarono a dirgli ciascuno: Non forse io, Signore? Ora egli rispondendo disse: Colui che intinge con me la mano nel piatto, questi mi consegnerà. Il Figlio dell’uomo se ne va come è scritto di lui; ma ahimè per quell’uomo per mezzo del quale il Figlio dell’uomo è consegnato. Bene era per lui se non fosse nato quell’uomo! Ora rispondendo Giuda, il suo traditore, disse: Non forse io, Rabbi? Gli dice: Tu l’hai detto! Ora, mentre essi mangiavano, Gesù, avendo preso il pane e avendo benedetto, lo spezzò e, dando ai discepoli, disse: Prendete e mangiate: questo è il mio corpo! E avendo preso il calice e reso grazie, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti; questo infatti è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti in remissione dei peccati. Ora vi dico: da ora non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno quando lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. E, cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

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Il vangelo della Passione di Matteo che la liturgia ci propone nel ciclo A comporta due lunghi capitoli: 26-27. S’impone allora la scelta di un brano più circoscritto e la nostra scelta è andata al racconto dell’eucarestia (26,20-30), vero prologo di tutta la passione e cuore del dramma che Gesù compie sulla croce. Ogni volta che prendiamo e mangiamo il corpo di Gesù noi entriamo nella Sua vita, diventiamo figli del Padre e fratelli degli al­tri. Finalmente il frutto dell’albero della vita che stava al centro del giardino (Gen 2,9), arriva a maturazione rendendoci simili al Padre e figli nel Figlio. Nell’Eucarestia che celebriamo ogni parola si fa pane e sangue, e Gesù stesso diventa la nostra vita: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Davvero l’eucaristia «è tutto e dà tutto» e Gesù stesso, pur superando ogni nostra aspettativa e desiderio, non può darci nulla di più perché ci dà se stesso!
È quanto mai suggestivo il fatto che Gesù compie questo immenso dono del suo corpo proprio l’ultima sera della Sua esistenza terrena. Le tenebre che come una coltre avvolgono tutta questa giornata sigillata con la deposizione del suo corpo nel sepolcro, fanno da forte contrasto nell’evidenziare come la vita di Gesù non è soffocata dalla morte ma anzi sprigiona la luce di quell’amore che non si ferma neppure di fronte alle tenebre del cuore dell’uomo che lo ha rifiutato preferendogli le seduzioni del denaro. Il tradimento di Giuda emerge da questo buio come una serpe che si aggira cercando di paralizzare con il suo veleno la persona e l’opera di Gesù. Comunque Lui non è inconsapevole di fronte a quanto si sta tramando a suo danno; eppure si consegna a chi ha già deciso di consegnarlo, non si rifiuta a chi lo tradisce. Ci viene da dire col salmista: «Forte è il suo amore per noi, e la fedeltà del Signore dura in eterno» (Sal 117,2).
Quando Gesù svela che nel gruppo c’è in atto il tradimento proprio nel momento in cui Lui ha deciso di consegnare se stesso, allora ogni vero discepolo non può far a meno di chiedere un coraggioso chiarimento, con la sincera disponibilità di mettersi in gioco senza tirarsene fuori con presunzione o arroganza: “Sono forse io, Signore?”. Nel dono totale di sé offerto da Gesù nella Sua Cena e concretamente vissuto sulla Croce, ogni cristiano non può esimersi dal dire a se stesso: questo dono lo prendo nelle mie mani e nel mio cuore o lo lascio cadere? Sono disposto a “sprecare” qualsiasi profumo prezioso insieme alla donna di Betania perché preferisco “il profumo dell’amore di Cristo” (2Cor2,15), o mi allineo con chi baratta la fedeltà al Padre con “l’elemosina ai poveri”?
Anche Giuda insieme agli altri apostoli pone la stessa domanda, ma in essa c’è già anche la sua risposta: infatti considerando Gesù solo come “maestro di vita” e non come Colui che è venuto per “dare la vita”, ha già messo in atto il tradimento. Per un vero credente Gesù non può essere uno dei tanti maestri ma il Signore e Figlio di Dio. Un vero credente ha avuto modo di riscoprire infatti che Lui è sempre stato fedele nonostante la propria infedeltà e che inoltre continua ad amare e donare la Sua vita a me che lo tradisco: “Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rom 5,8).
Certo il peccato di Giuda oltre che il rinnegamento di una profonda amicizia è il fallimento dell’esistenza: meglio non essere nati! È quel morbo che divora la nostra identità di figli. Ma il Figlio prediletto del Padre è venuto in terra proprio per liberarci dalla nostra schiavitù al prezzo della Sua vita. La sua croce è l’«ahimè» di Gesù, la Sua infinita sofferenza per il male dell’uomo, Giuda compreso.
Alla devastante esperienza del tradimento di un suo discepolo, Gesù reagisce nello stile tipico del figlio che «prende» dal Padre tutto ciò che è ed ha e non alla stregua dell’uomo divorato dall’istinto di rapire e possedere. Ed ecco allora che Gesù prende con amorevolezza nelle proprie mani il pane e il vino, frutto della terra ma contemporaneamente madidi delle fatiche, delle relazioni e delle speranze dell’uomo. Sono doni da non lasciar scivolare per terra e simbolo di una volontà che si consegna come pane a chi lo ha consegnato perché anche lui possa trasformarsi in pane per gli altri. Per questo Gesù non male-dice chi gli sta facendo del male, ma bene-dice il Padre perché il dinamismo della violenza e della morte sia sconfitto dalla circolarità dell’amore e della vita in tutte le sue creature.
Un “pane spezzato” è un simbolo quanto mai eloquente di tutta l’esistenza di Gesù; ma nel progetto Suo e del Padre, questo gesto non intendeva essere una scelta che riguardava solo la Sua persona. E proprio perché Gesù non ha mai vissuto per se stesso, in questo momento conclusivo manifesta espressamente lo Spirito che lo ha sostenuto in tutto il suo cammino: “dà il pane ai discepoli dicendo: prendete, mangiate e bevetene tutti”. Come Gesù anche noi nell’accogliere la Sua vita e ringraziarlo riscopriamo la nostra identità di figli, non più salariati o servi; quando poi corrispondiamo con l’amore all’amore ricevuto ci comportiamo non più come lupi che azzannano ma come fratelli e sorelle. È l’u­nico modo, davvero divino per noi uomini, di vivere umanamente. In altro modo, tutto rotola verso la distruzione e la morte: “Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri” (Gal 5,15).
La considerazione finale di Gesù a conclusione della Sua Cena: ”non berrò più di questo frutto della vite” (v.29), potrebbe sembrare un po’ malinconica e un po’ estranea alla intensità di quel momento. E invece è la luce che ci permette di comprendere la situazione che si creerà con la morte di Gesù. “Bere il frutto della vite” vuol dire celebrare la festa perché il cammino è giunto al suo traguardo. Ma il Figlio primogenito invece sarà sempre in cammino, affamato e assetato, estraneo e nudo, malato e carcerato, fino a quando tutti giungeremo a vivere come fratelli e sorelle. È solamente allora che anche Lui brinderà con «il vino nuovo» del Regno. Quando celebriamo l’Eucarestia in nome della memoria di ciò che il Figlio ha fatto per noi, noi “prendiamo il pegno” della vita futura che nel presente si concretizza in un “impegno per gli ultimi”: amandoli facciamo la provvista di olio, reduplichiamo il talento, viviamo di Lui che ha preso, benedetto, spezzato e dato.
Seguendo la grande tradizione ebraica della cena pasquale, anche la Cena del Signore si conclude con il canto del grande Hallel (Sal 136), cadenzato dal meraviglioso ritornello che canta: «Perché eterna è la sua misericordia». Nell’Eucarestia, l’assidua memoria di quanto Gesù ha fatto per noi ci apre gli occhi ed il cuore a comprendere ed assumere pienamente la motivazione profonda della creazione e della storia umana, sia nel bene che nel male: è “l’eterna misericordia” di Dio, che si volge ad ogni mise­ria e la colma della sovrabbondanza del suo cuore.

padre Agostino